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Recensione. MOOD INDIGO: Gondry riduce Boris Vian a un universo childish e giocattolesco

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20135984Mood Indigo – La schiuma dei giorni di Michel Gondry. Tratto dal romanzo La schiuma dei giorni di Boris Viani (ed. Marcos y Marcos). Con Romain Duris, Audrey Tautou, Omar Sy, Gad Elmaleh, Jamel Debbouze, Charlotte Le Bon.20135982Delude e annoia questa cineversione (non è la prima) del romanzo di Boris Vian. Michel Gondry, tornato apposta a Parigi dall’America, mette in piedi il solito, e anche più del solito, delirio visivo affastellando sul set una quantità indescrivibile di oggetti, gingilli, creature meccaniche, creando un universo childish e giocattolesco totalizzante e totalitario. Al punto che i personaggi e la storia restano come imprigionati e compressi dagli eccessi del décor. Anche con un un tono sciocchino-stupidino che stona con il precipitare drammatico della seconda parte. Voto 420135978
Meglio lo dica subito: mai avuta la minima inclinazione per il cinema chiamiamolo così fantastico, visionario, barocco, eccessivo, sgargiante, immaginifico, surreale, subreale, e per gli autori incontinenti che montano bric-à-brac e lunapark di oggetti variamente assortiti. Sarà la mia indole nel fondo puritana e calvinista a farmi disdegnare l’eccesso e lo sfarzo, o forse è un dato fisiologico, perfino genetico: è come quando ti fa schifo un certo cibo, e senza ragione apparente (a me capita con il formaggio). Ti repelle, e basta. Sarà una questione di recettori mancanti, ecco. Lungo preambolo, e pure narciso e autoriferito, per dire che, sorry, non son mai stato un estimatore del cinema di Gondry e di certe sue derive fantastico-giocattolesche, come rifuggo peraltro dai film del suo connazionale Jeunet e da quelli di Terry Gilliam. Poi di tanto in tanto mi capita anche di apprezzare, ma devo arrivarci con un bel po’ di training autogeno, dopo essermi ripetuto all’infinito il mantra che non è giusto aver preclusioni e pregiudizi al cinema (e non solo in quello). Alla fine delle due ore e qualche minuto di questo Mood Indigo sono riuscito almeno a non odiarlo, che per me è già tanto. Piaciuto no, non ce l’ho fatta. Proprio non l’ho retto tutto quel giardino d’infanzia allucinogeno con il papier-maché, la nuvola-cigno, le anguille che escono dal rubinetto, i campanelli in forma di scarafaggi meccanici, le tavolate con cibo che si scompongono e ricompongono come plastilina, le ninfee che crescono nei polmoni, i fiori secchi per debellarle. (Per non parlare di certe battute tipo “quando un coniglio ha il sopravvento sull’acciaio va eliminato”, che sentendola m’è venuta voglia di metter mano alla pistola, e non ditemi che siccome l’ha scritta Vian è da venerare). Aiuto, soffoco, aprite la finestra, togliete qualche oggetto dai set così straripanti, così saturi, di questo film di Gondry. Chiamate qualcuno che faccia pulizia, metta ordine, sbatta via in una raccolta differenziata tutti ‘ sti gingilli, la maggior parte inutili ai fini della definizione dei personaggi e della narrazione. All’inizio per un po’ ci si diverte in mezzo a questo décor, a questo horror vacui zeffirelliano però con pretese avanguardistiche (ma di quale avanguardia?) dove si miscelano anni Quaranta-Cinquanta e certa tecnologia attuale, ma come retrodatata all’era meccanica e predigitale. Alcune invenzioni son carine, per carità, come lo stanzone per dattilografe con le macchine per scrivere semoventi sui binari. Il resto è da mal di testa. Non so quanto ci sia del romanzo di Boris Vian da cui il film è derivato, non l’ho letto e credo che dopo la visione di questo Gondry non mi verrà voglia di leggerlo. Cavalcata tra il realismo e il fantastico, spingendo più sul secondo che sul primo, Mood Indigo immerge l’asse narrativo principale, la storia d’amore tra il nullafacente Colin e Chloé (e quella parallela dei loro amici Chick e Alisse), nella Parigi post-bellica già protoesistenzialista e molto Saint Germain des Près, la Parigi con i filosofi star del disgusto e della nausea, smaniosa per il jazz e intrisa di maledettismi intellettuali e di vita. Qui Gondry fa già un errore clamoroso. Anziché ricreare con fedeltà quel mondo e quella atmosfere, si butta su un universo parallelo-fantastico come sospeso nel tempo, e al di là della Storia, sprecando l’occasione di re-immaginare e di restituirci quella Parigi mitologica di Vian, della prima Juliette Gréco, di Sartre. Peccato. La svista  maggiore resta però quella di realizzare un film di pura scenografia, mirando più al contenitore (in senso letterale) che al contenuto. Lo spettatore è continuamente distratto dal suk allestito da Gondry, da qualche oggetto che si muove e attraversa lo spazio schermico disturbando dialoghi, personaggi, azioni, i quali passano in secondo piano rispetto a quella baracconata imbalordente. Al massimo Gondry azzecca visivamente qualche inquadratura e qualche sequenza, mai il racconto no, quello lo perde. I personaggi  – nonostante gli sforzi di attori che si chiamano Romain Duris, Audrey Tautou e Omar Sy (Quasi amici) – sembrano di pezza, o di papier-maché pure loro. Quando nella seconda parte viene a galla il lato dark del romanzo di Vian, Gondry non ce la fa a cambiare registro, non sa restituirci con un minimo di coerenza quel salto nel buio e nel dramma. Non sa dare un minimo di profondità e credibilità. I set balordi e strapieni che ha messo in piedi diventano una morsa, una prigione che stritola e rende quasi inintellegibili eventi e personaggi. Qualche frammento si salva (il Colin costretto a lavori umilianti come la covata con il suo corpo), il resto è il nulla. Anche la vena sovversiva di Vian si perde, la sua polemica contro la Chiesa, il suo sarcasmo nei confronti del filosfo-divo Sartre, che in La schiuma dei giorni viene storpiato in Jean-Sol Partre. Non è male quell’elefante meccanico con in groppa Partre e la sua musa, molto somigliante a Simone De Beauvoir, ma non incide sulla narrazione, è solo una bizzarria visuale tra le tante di questo sballatissimo e, nonostante lo scialo di effetti ed effettismi, incolore film.


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